La “Natura Inclusa” di Fabrizio Trequattrini

Nell’attuale era tecnettronica, il tratto più caratteristico dell’arte di ogni tempo, quel suo “dono dell’ornamento” che, secondo Ernst Bloch, costituisce l’irrinunciabile sostanza umana del desiderio di utopia sotteso ad ogni progetto estetico, pare essersi paradigmaticamente rifugiato nelle “minori maniere” dell’artigianato. Lungi dal costituire un mero residuo di tramontate speranze esso rappresenta ancora la cifra di un insopprimibile bisogno di conciliazione tra lavoro creativo singolare e fruizione estetica diretta; nel suo carattere fondamentalmente ornamentale, che avanguardie e post -avanguardie hanno ormai rimosso, si esprime la latenza di quel desiderio di godimento “creaturale” del prodotto che due secoli di statuti metafisici dell’arte sembrano aver inappellabilmente relegato nel regno del “Kitsch”.

Se l’arte, nell‘epoca della razionalità tecnologica compiutamente dispiegata, finisce per rivelare emblematicamente l’antico progetto della metafisica occidentale (la riduzione della natura a puro fondo di materia indefinitamente sfruttabile da parte della sua volontà di potenza)‘ l’artigianato mistico sembra riuscire ad evitare questa fondamentale “hybris”, esprimentesi oggi nel dominio planetario della tecnica, e, nel contempo, a mantenere su un piano di pietosa moderazione il desiderio prometeico che da quel progetto è parimenti originato, ma che con esso non si identifica completamente: l‘umanizzazione della natura ad opera del lavoro creativo, di cui Marx parla nei “Manoscritti” del 1848.

Dell’abilità di perseguire l’obiettivo di una tale medietà tra il non-nichilistico lasciar-essere la natura ed il bisogno di attingere pur sempre l’umana ornamentalità della poièsi, l’arte orafa di Fabrizio Trequattrini costituisce un esempio cospicuo. In un campo come il suo, dove impera ormai la produzione in serie ed il consumo di massa, l’alternativa artigianale è esposta a due pericoli opposti: alla pura adeguazione agli stilemi funzionalistici del design, oppure al rifiuto di ogni razionalità costruttiva in nome di un intellettualismo post-moderno debordante spesso nella abusata poetica della citazione e del frammento.

A questo specioso «aut-aut» l’arte di Trequattrini riesce brillantemente a sfuggire fin dal principio grazie ad una mossa preliminare che ne caratterizza le realizzazioni in modo del tutto originale. In lui, che pure è artigiano provvisto di “scuola” e di “mestiere”, il processo creativo non soggiace ad alcun pregiudizio ermeneutico estraneo alla cosa stessa dell’operare, ma assume come punto di avvio, con devota competenza, “l’abbandono” dei materiali nelle proprie specificità, adeguando ad essi la prassi ed evitando di imporre loro preventivamente una deformante poetica.

Chi lo conosce, sa perfettamente che, al di la delle mistificanti trasparenze richieste dal mercato, la predilezione di Trequattrini va a quelle pietre, apparentemente meno preziose, come le “paesine” e i calcari dendritici, i quarzi e le tormaline, nelle quali e necessario soprattutto il saper mostrare le “inclusioni di natura”, che e compito della «pietas» artigianale valorizzare, tenendo conto della loro vivente testimonianza. Le stesse pietre preziose vengono utilizzate da Trequattrini al di la del loro tradizionale carattere di feticcio, in base ad una concezione più alta che risale alla visione mistico-erotica romantica del cristallo come prisma cosmico, come geroglifico vivente di un infinito di forme, colori, sensazioni.

Nella sua fedele lettura della “scrittura delle pietre”, Trequattrini è rivolto all’intera scala dei gradi della «physis», da quello della espressiva opacità delle concrezioni e delle intrusioni fino alla “albedo” suprema delle gemme più pure, senza attribuire a nessuno un particolare privilegio ontologico, convinto com’è che in principio era il minerale, il geode, il cristallo. In questo senso, l’ abilità dell’artefice non può allora consistere in una imposizione estrinseca di forma a tale “natura naturata”, bensì in un “ascolto” fedele delle segnature della pietra, che devono in ultima analisi orientare la stessa elaborazione creativa, dettare di volta in volta le forme più appropriate. Queste ultime, perciò, non si irrigidiscono mai in stereotipi eccessivamente fissi, ma fluttuano, sulla base di una eccellente padronanza dei mezzi espressivi, assai liberamente, andando da quelle geometriche, mai però spinte fino a funzionalistica astrattezza, ad altre più tondeggianti e morbide, nelle quali è possibile anche ripensare la tradizione senza scadere nella maniera. Il rispetto per la naturalità dei materiali, unito all’alta considerazione per la propria attività, che deriva dalla sapiente umiltà della tradizione artigianale, si riflette anche nei procedimenti tecnici che Trequattrini adotta.

La predilezione per lo sbalzo ed il cesello, la cura minuziosa dei dettagli, spinta fino alla realizzazione manuale delle parti più piccole dei singoli pezzi, più che costituire una casuale idiosincrasia, diventano polemica esplicita nei confronti della diffusa tecnica della fusione, che, a suo dire, può realizzare gioielli dotati di forma ma non di contenuto, opere in cui la forma imposta dallo stampo, oltre a “violentare” metafisicamente il metallo, preclude la possibilità delle “sacre nozze” fra quest’ultimo e la mano dell’uomo. Nello spazio aperto da questo connubio, che l’artigianato di Trequattrini felicemente realizza, dimora ancora il sogno dell’opera, quello di essere ornamento “felice”, dono dell’uomo all’altro uomo che lascia dietro di se il nichilismo puramente estetizzante dell’arte.

Giancarlo Baffo